Fabio Polenghi

Paris Match

Scritto da François de Labarre   

Fabio Polenghi, morto in prima linea


Il fotoreporter è stato ucciso a Bangkok durante l’ultimo assalto contro le “camicie rosse”, con le quali era stato per settimane

Dal nostro inviato speciale a Bangkok François de Labarre - Paris Match
Fabio si è accucciato, concentrato. In testa, come protezione, un casco da motociclista blu con la scritta “Stampa”. Tra le mani un obiettivo 20-70 che punta ora su una ventina di ribelli che procedono carponi davanti a lui, verso la linea del fronte. Mercoledì 19 maggio, quartiere Rajprasong. Un diluvio di piombo si abbatte sul campo delle “camicie rosse”. Malgrado l’ultimatum lanciato dal governo due giorni prima, gli insorti si rifiutano di abbandonare il centro della capitale thailandese. Dall’alba subiscono i tiri nutriti dell’esercito. Sono le 9 e 30. Fabio è là, a qualche metro da una barricata di pneumatici e bambù, dal lato dei manifestanti, per testimoniare quanto sta per accadere. La mitraglia non si affievolisce, ma Fabio non si muoverà. L’ha confermato proprio quella mattina, al telefono, a Patrick de Noiremont: collaborano per l’agenzia News Pictures, per la quale Fabio copre l’avvenimento. Non ci pensa neppure a ripassare i check point che ha attraversato qualche ora prima e a rientrare nel suo appartamento a Chit Lom. Ci sono diverse specie di fotoreporter: lui appartiene a quelli che rimangono sul posto, nell’occhio del ciclone. Il fotografo italiano, ai suoi esordi, non era abituato alle scene di guerriglia urbana: ha mosso i primi passi nella professione nel 1985, nella moda, “Vanity Fair”, “Elle”, “Marie-Claire”, “Vogue”. Nel 1999 si lancia in quello che più lo appassiona, da sempre: il reportage. Lui, che era abituato ai lustrini, si immerge in temi più seri: i bambini di strada, i sobborghi sudafricani, le “favelas” di Rio in guerra, che sonda nel 2009 con il nostro giornalista Michel Peyrard.

 
“Il suo senso del contatto umano era un vero e proprio dono”, ricorda Michel Peyrard


Come molti fotografi appassionati, Fabio si insedia nel luogo dove lavora: lontano dagli uffici e vicino alla storia. Cina, Cuba, Haiti, Israele, Nepal, Messico, Cambogia, etc. L’italiano, che parla anche portoghese, inglese, spagnolo e francese, ha il virus del viaggio e il gusto del prossimo. “Il suo senso del contatto umano era un vero e proprio dono”, ricorda Michel Peyrard. “Per strada, a Copacabana, non potevamo percorrere un metro senza che un passante lo salutasse. Aveva lavorato là per cinque anni e nessuno, dal vecchio boss al prete della bidonville, aveva dimenticato questo gran chiacchierone che amava scherzare ed era al tempo stesso estremamente coscienzioso, al punto da curare ogni minimo dettaglio. Il suo eterno sorriso non gli impediva di rivolgere uno sguardo severo sui fatti del mondo. Era capace di parlare la lingua del popolo come di dissertare sui problemi del Paese come un esperto dell’Ocse”.
In privato il fotografo milanese può scaldarsi contro la politica di Berlusconi e porre miliardi di domande ai colleghi rientrati dall’Iraq, ma né la politica né la guerra sono i suoi settori prediletti. Quel che piace a questo bruno tenebroso è analizzare e decodificare le situazioni sociali difficili. Appena giunto in Thailandia, ospite di amici, assiste all’imponente manifestazione del 14 marzo, organizzata nel cuore di Bangkok dal partito d’opposizione. Più di 100 mila “camicie rosse”, per la maggior parte provinciali venuti dai quattro angoli del paese, manifestano per chiedere le dimissioni del governo di Abisit Vejjajiva, l’attuale Primo ministro.
Un mese dopo i manifestanti montano le tende nel quartiere commerciale di Rajprasong. Fabio decide di installarsi a qualche strada da lì, a Chit Lom. Ogni giorno, grazie al bracciale verde da giornalista, penetra nel perimetro occupato dagli insorti. Il suo thailandese è ancora esitante, ma, mescolato a un po’ di inglese, basta per farsi capire. Il fotografo stringe contatti, ascolta le rivendicazioni, va in giro, raccoglie brandelli di vita. Come sempre trasforma gli abitanti dell’accampamento in una seconda famiglia. Ma questa volta si sente pronto ad accettare una certa dose di rischio. Ecco perché, quando il suo collega Patrick de Noirmont lo chiama, alle 8 e 15, quel mattino del 19 maggio, per avere notizie, Fabio è categorico: “Sono a Rajprasong e ci resto”.



Fabio è l’unica vittima di quest’ultima sparatoria


Tre quarti d’ora prima gli abitanti di Bangkok, spossati da mesi di tensione, lanciavano nel cielo ancora chiaro della capitale lanterne azzurre: secondo una tradizione locale questi lampioni portafortuna portano con sé i timori di chi li lascia andare. Nello stesso momento sul viale Rama IV prendevano posizione i tiratori scelti. I soldati aspettano, trincerati dietro i loro blindati. Le “camicie rosse” non avranno il tempo di trasmettere il messaggio di rassicurazione che si erano infine decisi a inviare al governo. L’esercito comincia a tirare. Nell’accampamento dei ribelli cadono le prime vittime. Chi tenta di soccorrerle è a sua volta esposto al fuoco. Un uomo, che usa un tavolo come scudo, riesce a mettere al riparo qualche ferito. Il caos è completo. Dal loro quartiere generale i dirigenti “rossi” cominciano a realizzare l’ampiezza dell’offensiva militare.
L’esercito tira su tutto quello che si muove. La maggior parte dei giornalisti ha preferito restare a 300 metri dalla barricata principale. Ma un gruppetto di reporter è avanzato fino alla prima linea per fotografare un triste convoglio: quattro monaci che trasportano un corpo insanguinato. Fabio e Masaru Goto, un collega giapponese, fanno parte dei giornalisti presenti. I due uomini si conoscono di vista. Si salutano. I monaci si allontanano, la mitraglia riprende. Fabio e Masaru si rifugiano dietro un secondo sbarramento precario. Da dove si trovano possono vedere un uomo in tenuta militare che incoraggia una ventina di “rossi” a tornare a combattere gridando “Paï! Paï!” (“Dai! Dai!”). I due reporter decidono di precedere il gruppo fino alla linea del fronte.
Fabio e Masaru si trovano nuovamente a qualche metro dalla prima barricata. La squadra degli insorti tenta di raggiungerla a carponi quando, dopo una decina di minuti, una raffica laterale di tiri, che proviene dal parco Lumpini, ferma la loro avanzata. Il “si salvi chi può” è generale. Fabio scatta una foto e si mette al riparo, cento metri più in là. Sono le 9 e 40.



Anche nel corso di un’operazione dell’esercito thailandese, Fabio aveva simpatizzato con gli oppositori.
“Era un grande seduttore” precisa il nostro reporter Michel Peyrard, con il quale Fabio aveva lavorato

Un pesante silenzio si è steso sul cuore della città. Masaru riprende le forze, in disparte, sotto un albero. Alle 10 e 30 un grido fende l’aria: “Sniper! Sniper!” (“Cecchino! Cecchino!”). I manifestanti, terrorizzati, risalgono il viale correndo alla rinfusa. I proiettili fischiano. Masaru fotografa la scena di panico. Nel disordine generale intravvede a terra un corpo insanguinato. Punta l’obiettivo, macchinalmente, per riflesso. Uno, due, tre scatti: riconosce il casco blu. Fabio giace al suolo, con gli occhi spalancati.
Sono le 10 e 45 e la via è ormai deserta. Fabio è l’unica vittima di quest’ultima sparatoria. Masaru e altri due uomini si avventurano in mezzo alla strada per portarlo più in basso. Il fotografo giapponese è sotto choc: “Eravamo insieme dieci minuti fa, non sapevo che si potesse morire così in fretta”. Nella zona assediata non passa neppure una macchina. Due “camicie rosse” propongono di trasportare Fabio in moto. Riusciranno a deporlo all’ospedale della polizia a mezzogiorno. I fotografi James Nachtwey e Adrees Latif lo incrociano per strada. Sembrerà loro di riconoscere un giornalista, ma non avranno il tempo di identificare Fabio.
Il fotografo italiano, colpito al cuore, è morto sul colpo. Il proiettile è entrato sopra il petto ed è uscito a livello dell’addome. Verosimilmente si tratta del tiro di un cecchino. La cerimonia di cremazione di Fabio Polenghi è stata celebrata lunedì 24 maggio, in un tempio buddista di Bangkok. Sua madre e le sue sorelle sanno che non conosceranno mai l’identità dell’assassino. Ma vorrebbero recuperare la macchina fotografica, oggi introvabile, come gli ultimi scatti di Fabio. La testimonianza degli ultimi minuti della sua vita, un po’ della sua passione, un po’ della sua anima.
(ha collaborato da Parigi Florence Broizat)

Source: Paris Match