Fabio Polenghi

Repubblica

Scritto da Caterina Pasolini  

L' ultima mail: non preoccupatevi

OGNI giorno è un giorno regalato, aveva scritto sabato sulla sua bacheca di Facebook. «Qui la situazione è bollente vado a lavorare. Ci sentiamo dopo». AVEVA detto così via mail ad un' amica lunedì. Poche ore e Fabio Polenghi, 48 anni, era morto. Ucciso da un colpo al cuore sparato dai militari. Fabio Polenghi non era un reporter d' assaltoo uno sventato in cerca di emozioni estreme o adrenalina. Chi ha lavorato con lui nei giornali, per le strade di molte città, lo ricorda come un professionista serio e prudente, un curioso del mondo e della gente. «Aveva la forza di un uomo tranquillo eppure l' aria da eterno ragazzo». Pacato, dai modi dolci e gentili, usava la macchina fotografica per raccontare storie e destini, lo faceva con passionee rigore. Gli piaceva partire, era sempre in viaggio, voleva qualcosa da scoprire e conoscere meglio, da vicino. «La fotografia era il suo amore, era un appassionato di cronaca internazionale», ricorda la sorella Isabella, anche lei fotografa che vive come la madre Laura a Milano e che ieri, quando già siti e tv mandavano la notizia dell' uccisione di Fabio, non voleva crederci. Su Facebook si moltiplicavano intanto i messaggi di centinaia di amici che da tutto il mondo scrivevano in ansia, di chi ancora sperava: «Fabio manda notizie siamo preoccupati», «Dimmi che non è vero, rispondi». Polenghi viveva i posti, li fotografava da dentro. Scatti mai fermi, ma narrati con l' occhio di chi lì c' era davvero: dovunque fosse creava legami, rapporti, imparava la lingua e le abitudini. Non era un turista, non faceva lo studioso, era cittadino del posto almeno fino alla successiva partenza. La sacca sulle spalle, due camicie, il teleobiettivo e il computer. Non gli serviva altro per sentirsi a casa ovunque. Aveva girato e fotografato e vissuto in più di 70 paesi. Ieri anche il presidente Napolitano ha espresso cordoglio per la sua morte. L' infanzia con le sorelle Arianna e Isabella l' aveva trascorsa a San Felice (Milano), poi la passione per la fotografia lo aveva portato a Parigi a fare il fotografo di moda per Vanity Fair, Vogue, Marie Claire, Elle. Qualche anno dopo l' universo delle bellezze patinate aveva cominciato ad andargli stretto ed era passato al reportage pubblicando su Paris Match, Der Spiegel, D di Repubblica. Sempre storie di persone al centro del suo obiettivo: dai senza terra brasiliani, all' Afghanistan, dal G8 al terremoto dell' Aquila. E quando si era stabilito in Brasile, alternando foto di moda agli scatti sui trafficanti di droga e vite in cerca di riscatto nelle favelas, aveva scelto di vivere vicino ad una favela, a pochi metri da Copacabana. Imparando il portoghese, stringendo legami con la leggerezza di chi non si ferma in un posto per sempre ma con la profondità di un amico vero, ricordano sconvolti in rete gli amici carioca. Free lance dal 2004 dopo avere lavorato a lungo per Grazia Neri, le storie se le andava a cercare, le studiava, ci metteva i soldi per il viaggio e poi partiva. Rischiando in proprio. Storie di frontiera, di popoli sfruttati. Era stato a lungo tra Cambogia, Birmania, Thailandia, appassionandosi alle vicende di chi non aveva voce. Dopo il Natale in famiglia in Honduras, dove vivono una sorella e la nipote, tre mesi fa era partito alla volta della Thailandia. «Non era un militante, cercava sempre di capire, cercava le emozioni della gente, voleva essere un testimone. Era una persona straordinaria», ricorda commosso il collega francese Fabrice Laroche. Ora pensava di stabilirsi in oriente e intanto, giorno dopo giorno, creandosi a Bangkok una rete di amici thailandesi, viveva dall' interno l' evolversi della situazione politica. Agli amici preoccupati l' altro giorno scriveva: «Non preoccupatevi sto attento, ci tengo troppo alla vita». Quando l' hanno ammazzato aveva un casco di protezione.

Source: La Repubblica